Guardo l’auto carica, e mi dico che sono stato proprio bravo, questa volta. Ogni cosa è incastrata al meglio, e c’è ancora un sacco di spazio libero - per lo meno, se guardo nello specchietto retrovisore non vedo un negozio di attrezzatura sportiva: questa volta guiderò più sicuro.
Rimettiamo le tendine, chiudiamo casa, tergiversiamo qualche minuto in giardino: è il rituale del trasloco. L’erba cipollina sta per esplodere i suoi fiori viola buonissimi, il tarassaco sta finendo il suo ciclo in leggerissimi pennacchi, il cielo è gonfio di pioggia sospesa. Torniamo a Padova, ci staremo per tre settimane, e ci sarà la ridda di socialità, affetti, cose da fare, cose da sistemare.
Ci sarà però anche lo spazio per sognare sulle carte topografiche aperte. Eppure, se la primavera promette le fioriture in quota, in città i gelsomini riempiono l’aria e coprono le case. Ci interroghiamo sui guardaroba estivi che dovremo portare sopra i mille metri, ma qui è così comodo mettere i pantaloncini, una gonna, due magliette.
Speriamo ci siano, nella prossima tappa, strade dalla pendenza umana per correre, un giardino per allenarsi. Ma qui, in pianura, ci sono i pesi, e fare “la ghisa” è un piacere.
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Si ride e si scherza, si esplora e si vive, ma ogni volta sono microtraumi e sballottamenti. Carica, guida, scarica, metti in ordine, impara la disposizione delle cose, impara a cucinare con un set diverso di utensili e padelle (in genere pochi dei primi, troppe delle seconde), abituati ad un nuovo letto, ad una nuova doccia, a nuove sedie, ridisegna la mappa dei dintorni, riscrivi nuovi rituali quotidiani.
Cerca la verdura fresca, cerca l’ufficio postale, cerca lo spritz al campari.
I tramezzini non li cerchiamo più: fuori dal Veneto non li troviamo mai.
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Ci chiedono: ma non vi stancate, a fare questa vita?
No. Sì. No. Nì. Un po’. Alle volte. Solo i giorni del trasloco. Solo i giorni della partenza. Solo quando il lavoro si incasina. Solo se gli incastri non funzionano. Solo i giorni in cui mancano gli amici. Comunque no. ma un po’ sì. No.
E via, a ripetere.
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Probabilmente senza pensare, potremmo elencare almeno un inghippo importante per ogni tappa nomade che abbiamo fatto.
Poi guardiamo quello che ogni tappa ci ha dato. E non c’è storia: alla domanda dello stancarci, rispondiamo sicuri.
No.
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L’auto era meno carica del solito perché ci siamo dimenticati di prendere la sedia ergonomica che Silvia usa per lavorare.
Così ci siamo ritagliati una mattina con la sveglia presto, siamo saliti in Cadore, abbiamo deviato verso una delle fioriture di cui sopra, scoperto un panorama nuovo, mangiato al sole e nella natura, recuperato la sedia, scambiato un abbraccio, e siamo tornati in pianura chiacchierando della vita. Abbiamo spremuto ogni momento.
Il senso di tutto, insomma, è questo.
Le sette cime
SETTE. Le fioriture di cui sopra. Quest’anno Silvia era abbacchiata: i consueti pratoni primaverili coperti di crochi non si sono visti. Poca neve, tempistiche sballate.
Che fare, quindi?
Andare in cerca di altre fioriture, e altre curiosità botaniche. Quest’anno abbiamo visto per la prima volta i macrosporofilli del larice (da innamorarsene). Abbiamo scoperto i narcisi di Lentiai (è il campo fiorito più grande d’Europa, trovi l’articolo nel blog), studiato il Trodo dei Fiori (che però mancheremo per motivi geografici), approfondito la conoscenza di altre specie spontanee - tipo l’asfodelo, che è bellissimo e mitologico.
E dato che la stagione è quella giusta, perché non ripassare un po’ di flora montana?
SEI. Per rimanere in tema, continua la nostra (timida) progressione nel mondo del foraging. Tanto che un giorno, salendo un caldissimo monte Avena, ci siamo stupiti di quanto lungo il sentiero ci fosse da mangiare: silene, erba cipollina, tarassaco. Abbiamo raccolto un po’ di tutto, e a casa l’abbiamo integrato con il buon enrico trovato verso il cimitero, e l’acetosella lungo il ruscello, giusto sopra al paese.
E chissà quante ancora ce ne sfuggono!
CINQUE. Quand’è che una montagna diventa la montagna dietro casa? Alcune ipotesi:
quando non hai voglia di studiare un’altra escursione, e sali lì,
quando doveva piovere ma non lo fa, e sali lì,
quando puoi passare un’ora a cincischiare pochi metri quadrati di bosco per il solo gusto di farlo, e lo fai lì,
quando sei già stato in forcella/rifugio/cima dieci volte, ma ti manca quella variante, e sali lì (ancora).
Altro?
QUATTRO. Un po’ di sfida, un po’ di ossessione, un po’ i cartografi dell’impero. Se tieni al tuo blog di montagna, ci sono anche queste cose. Due o tre albe fa, in quello strano dormiveglia che precede la sveglia, sogno che un fantomatico editore mi commissiona un libro che dovrebbe contenere la relazione di un sentiero per ogni Comune italiano. Io nasco geografo, e so che i Comuni italiani sono ad oggi 7901.
Sono già indietrissimo sulla consegna del manoscritto.
TRE. Davide aspettava solo il momento giusto per leggerlo e, come da preventivo, l’ha divorato. Se non dovessi tornare è l’ultimo libro di Enrico Camanni, e fa fede a pressoché tutte le aspettative: scrittura bellissima, frasi epiche in una storia venata di malinconia, e l’alpinismo che non decide il 100% del libro - anzi.
Il romanzo racconta e prova a completare la vicenda di Gary Hemmings, seducente alpinista sognatore, ribelle, fuori dai limiti, attivo tra fine Cinquanta e primi Sessanta. Nel mezzo, il ‘68, la fama, i sogni infranti.
Leggetelo, se volete una storia un po’ diversa, raccontata in modo ottimo (ve lo linkiamo qui).
DUE. Un po’ di polemica? Hai presente il Monte Santo di Lussari, uno dei luoghi più iconici del Friuli Venezia Giulia? (Talmente iconico, che figura sulla copertina del nostro ultimo libro di escursioni).
Storia vuole che per il passaggio del Giro d’Italia, la carrareccia che sale al Lussari sia stata asfaltata. Tra le leggende che ci hanno raccontato, c’è stata anche quella che avrebbe poi portato il turismo dei ciclisti strada, o per lo meno di quelli che avrebbero voluto cimentarsi con l’ardua salita.
Bene. Il giro è passato, i ciclisti amatoriali si stanno fregando le mani, gli ecclesiastici del Lussari però fanno sapere che no, di lì non si passerà: nemmeno in bici.
Al massimo, pagando.
Poi ci si chiede perché chi scrive è scettico quando “certe persone” mettono mano all’ambiente, e fanno un sacco di giri di parole per giustificare “certi interventi”.
UNO. Silvia lamentava l’ingiustizia: vado in montagna quattro volte alla settimana - almeno! - e non ho mai visto il gallo cedrone. Poi stiamo scendendo da [posto X], svoltiamo verso [posto Y], ed è lì, con la sua coda a ruota, l’incedere minaccioso e territoriale, e una gamma di suoni bislacchi da emettere.
Al di là della magia e della curiosità soddisfatta e dell’emozione, si apre il consueto dibattito: dire dove l’abbiamo visto, o tener segreto per paura che “le orde” poi si fiondino a importunarlo?
La nostra scelta l’abbiamo fatta senza neanche bisogno di confrontarci, ma è un tema noto: capita che, alle volte, ci obiettino che facciamo male a raccontare i bivacchi, perché poi si riempiono di gente.
Cosa ne pensi?